Libia: La guerra e l'umanità
Intervento in Libia: dopo le opinioni, molto diverse, espresse da Cohn Bendit e Gino Strada continuiamo la pubblicazione di altri punti di vista con Adriano Sofri
La guerra e l'umanità
di Adriano Sofri *
La guerra non è umanitaria, certe paci possono essere disumane. Lo scorso giovedì, 17 marzo, Gheddafi disse in tv: “Arriveremo a Bengasi stasera e non avremo pietà. Andremo casa per casa”. “Stasera”: alla mezzanotte libica il Consiglio di sicurezza avrebbe votato. I primi raid francesi -i più ansiosi di cominciare- sono avvenuti alle 17,45 di sabato. I gheddafisti avevano attaccato in forze, ma non ne erano ancora venuti a capo. Che cosa sarebbe stato degli ottocentomila abitanti di Bengasi?
E’ una domanda che nessuno dovrebbe eludere. Non che manchino le ragioni per l’amarezza e il disgusto. Gli Stati che vanno a bombardare la Libia di Gheddafi hanno fatto fino a ieri affari d’oro con lui, e calcolano di farne di più. Gli hanno venduto le armi che oggi prendono di mira. Gli hanno lasciato piantare la sua tenda madornale a Parigi o a Roma. Bisognava prima fare ben altro, dite, bisognava comportarsi ben diversamente. Infatti: ma che cosa bisognava fare la sera di giovedì 17 marzo, quando si annunciava il rastrellamento, casa per casa, senza pietà? Tutto era cominciato, a Bengasi, dall’ennesimo arresto di un giovane avvocato che denunciava tenacemente l’eccidio di 1300 prigionieri in un carcere di Tripoli, nel 1996. Questa volta c’era l’esempio i Tunisi e del Cairo, la gente è andata in piazza. Toccava alla città che aveva avuto la forza di ribellarsi di pagare per il delirio della terra e dei suoi governanti?
Succede continuamente. La norma non è affatto quella dell’interventismo “umanitario”, ma il suo contrario: l’omissione di soccorso. La norma è il Ruanda 1994, e il Clinton che si batte il petto per aver cavillato sul geocidio e lasciato perpetrare quell’orrore immane (e la Francia o il Belgio che non se lo battono abbastanza per avergli dato mano). Il Ruanda, dove si macellava a colpi di machete, e non si spedì un Piper a far saltare la Radio delle mille colline, e non si fecero cortei a Roma o a Parigi. La norma è Srebrenica 1995, coi governi europei complici e qualche pacifista impegnato a sventare decolli di aerei ad Aviano. Quando finalmente decollarono, la partita si chiuse in un giro di giorni e nella rotta dei gradassi ubriachi che miravano ai bambini. Andò diversamente in Kosovo, perché la lezione di Srebrenica era fresca, e Milosevic aveva passato il segno. Si riaccese la scaramuccia degli interventisti e dei pacifisti, più scoppiettante perché ad aderire all’intervento era Massimo D’Alema.
Il copione dei pacifisti e degli interventisti si replica come le sedie di Ionesco. Si può davvero dubitare del dovere di aiutare, o chiamare aiuto, quando il crimine si compie sotto i nostri occhi, la sera di Bengasi o la mattina di Srebrenica? E’ stato codificato, quel dovere, ma era scritto da sempre. Ricominciare ogni volta daccapo –“intervenire o no?”- è il modo vanesio e imbecille per eludere la vera ardua questione: quando e come intervenire. Era la questione del Kosovo: sgombrando la terra e dall’alto dei cieli, o viceversa? Quasi nessuno se ne occupò, tesi gli uni a gridare no “senza se e senza ma”, paghi gli altri della decisione trasmessa agli stati maggiori, che fanno quello cui sono addestrati. Si nega che oltre i confini nazionali si possa ricorrere a una polizia. In nome della sovranità nazionale –come se le frontiere delle nazioni fossero chiuse al bracconaggio criminale, alla fame, alle nubi radioattive, e anche alla solidarietà fra umani. O in nome dei rapporti di forza e di convenienza, della ragion di Stato: come sostenere che dentro una nazione il lavoro di polizia si debba fermare di fronte alla malavita troppo potente, o ai potenti troppo potenti. Del resto, hanno sostenuto anche questo.
Ci sono state guerre inevitabili e giustificate, come contro il nazifascismo. “Umanitarie” no. Si abusa del nome orrendo di guerra, e del resto che cosa c’è di più eccitante della nuvola di missili appena lanciati? Le guerre dovevano almeno avere una parvenza di equilibrio fra contendenti. C’è, fra la Tripolitania e l’armata d’occidente? A chiamarla, come si deve, azione di polizia, bisogna che sia autorizzata (questa lo è, in Iraq non lo era, e non rispondeva all’appello di una popolazione insorta), che faccia un uso proporzionato della forza, che faccia valere i propri principii anche per il nemico che affronta. Guerra o azione di polizia: lo considerano un gioco di parole, ammesso che lo considerino. Eppure è così inevitabile: c’è un diritto internazionale se c’è un’unione delle nazioni, c’è un tribunale internazionale se c’è una polizia internazionale. L’unico a dirlo, da noi, fra tanto cubitale gridare alla guerra, è stato Napolitano: “Non siamo entrati in guerra. Siamo impegnati in un’operazione dell’Onu”. (L’ha ripetuto Frattini, “Non siamo in guerra”, ma lui voleva dire altro, tirare il sasso, o non tirarlo nemmeno, e comunque nascondere la mano; come il Berlusconi “addolorato” per Gheddafi).
Quanto alla terza via: le vie sono diecimila. A volte c’è una sola via. La sera di Bengasi, la mattina di Srebrenica. Lì non si può dire “Né… né…”, né con i ribelli né con Gheddafi… Si deve stare con qualcuno e contro qualcun altro. Con l’aggredito contro chi lo aggredisce, in una infame sproporzione di forze. In una strada di città può bastare un bravo carabiniere. Con un satrapo che sta bombardando i suoi sudditi ribelli con i Mig, è più complicato. Ma non meno necessario.
* da Repubblica del 25 marzo 2011
Cohn Bendit:
http://eco-ecoblog.blogspot.com/2011/03/libia-cohn-bendit-chi-scende-in-piazza.html
Gino Strada:
eco-ecoblog.blogspot.com/2011/03/libia-gino-strada-sarkozy-il.html