Gli ecologisti, i partiti, le alleanze
di Massimo Marino *
Sebbene oggi in Italia, al contrario del resto d’Europa, non sia in vista un movimento politico ampio e pluralista che metta al centro della sua mission l’avvio di una graduale conversione ecologica dell’economia, della società e degli stili di vita nel nostro paese, si è aperto qualche nuovo spazio di dibattito sul rapporto di una possibile nuova forza ecologista con le sue inevitabili connotazioni civiche e anticasta ( per usare una brutta parola in uso ), con l'insieme dei partiti esistenti.
Il dibattito, a parte qualche nicchia culturale preesistente, è stato aperto negli ultimi anni dall’iniziativa di Grillo, dalle iniziali riflessioni teoriche di un piccolissimo gruppo di persone che hanno fondato il Gruppo delle Cinque Terre, ma ancor più dalla diffusione, negli ultimi 10 anni, di esperienze civiche locali ( alle quali alcuni aggiungono l’aggettivo “veraci”, cioè veramente autonome dai partiti ) contaminate dalla cultura della tutela del territorio, dei beni comuni e dei diritti individuali e collettivi; esperienze che si sono anche cimentate con la presenza negli appuntamenti elettorali locali.
Dell’ approccio “ ne di destra ne di sinistra” oppure del “distanti e distinti dai partiti” più recente, fino a quello estremo per cui “ i partiti sono tutti uguali” esistono variegate e molto diverse interpretazioni alcune delle quali hanno contribuito a rendere meno comprensibile il senso di questo approccio che in qualunque altro paese europeo ( Francia e Germania in primis ), nell’area del nuovo ecologismo europeo degli ultimi anni è invece chiarissimo.
Fra gli interpreti più singolari di questo assunto , diventato da noi più confuso invece che più chiaro, primeggiano i radicali di Pannella che da qualche anno praticano una particolare versione del teorema secondo la quale si può contemporaneamente sparare a zero sul sistema partitocratico, visto come un tuttuno, avere un proprio drappello di deputati nelle liste del PD, dichiarare di fronte a Cohn Bendit la propria primogenitura ambientalista ed il giorno dopo aprire a Berlusconi; così come sostenere con veemenza il sistema maggioritario e bipolare ( all’americana ..si dice, paese dove la metà degli elettori non vota ) e insieme presentare dove si riesce il proprio simbolino ben personalizzato dentro o fuori o contro tutti gli altri partiti. Oppure ancora promuovere referendum e strali contro il finanziamento pubblico ai partiti e insieme utilizzarlo da tempo.
Il dibattito ha fatto, dopo 20 anni, qualche “piccolo” passo avanti nel recente conclave ecologista e civico di Bologna dove, tentando di discuterne per la prima volta in un consesso eterogeneo, sono emerse incomprensioni di tutti i generi. Dico “piccolo” perché “piccolo” era il conclave, meno di 200 persone, tante da immaginare che si potrebbero fare altri 20 conclavi simili ,con persone ogni volta diverse, ma nell’insieme rappresentative di questa stessa grande galassia a cui mi riferisco.
Qui il tema dei “ partiti” si è incrociato con quello delle “ alleanze” e con quello delle “appartenenze pregresse” e su questi temi è emersa, apparentemente, una insuperabile lacerazione: fra quelli che di partiti non vogliono sentir parlare (dimenticando che, almeno nell’ambito elettorale, il tema va perlomeno discusso in profondità ) e quelli che per ingenuità, per opportunismo, o per togliersi la grana, se la cavano affermando che se ne parla poi ( non è detto quando, forse contando i cartellini bianchi e neri in una surreale miniassemblea costituente? ).
Nella realtà sappiamo che esistono nei partiti italiani, in particolare nel PD, nei sopravvissuti della ex estrema sinistra e non solo in queste aree, migliaia e migliaia di persone normali e anche quadri che condividono in gran parte alcuni aspetti di fondo della cultura ecologista e la praticano per quanto gli è consentito nei loro partiti. Se esagerano nella coerenza ne vengono espulsi di fatto, Val di Susa e TAV insegnano.
L’ultimo esempio sono i referendum sull’Acqua pubblica dove anche migliaia di militanti del PD e di altre aree politiche hanno raccolto le firme o firmato, addirittura scartando la inadeguata opzione di Di Pietro, di fatto in molti casi ponendosi “contro” i propri amministratori (Torino è un esempio ) che praticavano esattamente l’opposto. Aggiungo i casi noti di amministratori, in genere di piccoli comuni che hanno minori contraddizioni delle medie e grandi città, che praticano, su alcuni temi almeno, una ottima amministrazione “virtuosa”, positiva e pienamente condivisibile. Per ultimi gli stessi Verdi che, sopravvissuti ad un congresso che ne voleva cancellare addirittura l’esistenza, si sono dichiarati, inizialmente, intenzionati a “sciogliersi”, o “superarsi”, come qualcuno ama precisare, in un nuovo nascente movimento, tranne il fatto di far cadere, silenziosamente e ripetutamente, qualunque opzione che, nella prospettiva di una grande aggregazione, li ponesse “alla pari” ( non “ fuori” come qualcuno si è inventato ) con tutti gli altri che, si presuppone e si spera siano “tanti e tanti e diversi”. Tutti però, insieme alle aree più radicali, dai grillini fino al piccolo gruppo di Uniti e Diversi ed altri gruppi minori devono essere considerati, a pieno titolo e con pari dignità, potenziali interlocutori e protagonisti di un possibile percorso nuovo di aggregazione.
Non comprendo cosa ci sia di ideologico, di offensivo o di provocatorio nel sostenere che, nel momento in cui si riuscisse a gettare le basi minime ( l a “ massa critica iniziale” ) per una nuova e grande aggregazione politica, pluralista ma priva di ambiguità e definita nei suoi larghi ma precisi contorni che la caratterizzino, tutti, comprese le tante “reti civiche” o “liste” che non si basano su una specifica area di intervento settoriale ma che hanno una vocazione “generalista”, tutti debbano, preventivamente, dichiarare e praticare il superamento della propria specifica “ragione sociale”. Se è un partito attraverso un congresso che è quello che conta, se è una lista o una rete attraverso un chiaro pronunciamento, se è un iscritto ad un qualunque partito, attraverso un personale cambiamento di collocazione. Giusto, da questo punto di vista, se non lo si usa strumentalmente, lo slogan “ non chiediamoci da dove veniamo ma dove vogliamo andare” che però io tradurrei in modo più onesto in un più trasparente: “decidiamo che cosa vogliamo essere e cosa vogliamo fare” e su questo poi cominciamo ad unirci, abbandonando o modificando, per prima cosa, le nostre appartenenze pregresse. Per i movimenti locali o di settore magari aggiungendo al proprio nome un cognome, che dia, in una logica in qualche modo “ federativa”, una identità chiara alla nuova famiglia politica che si vuole costruire e alla quale si sceglie di appartenere.
E' un punto di avvio necessario, a meno che non si riproponga, non dichiarandola, quella deleteria idea di “trasformismo” dilagata in Italia negli ultimi 20 anni, per la quale centinaia di quadri, assuefatti a privilegiare la propria vocazione al professionismo nella politica, sono saltati, e anche ripetutamente, da un partito all’altro. Sono notissimi i casi fra Verdi, Radicali, esponenti della Sinistra estrema e moderata; sebbene destino più scandalo, chissà perché, i casi, certo particolarmente penosi, che riempiono le pagine di questi giorni, riguardanti esponenti del cosiddetto Centro e Centro-destra, per non parlare di dipetristi in fuga e perfino di qualche esponente grillino illuminato da Di Pietro. Fenomeni, che sono tutti parte della anomalia italiana, che sono quasi assenti nel resto d’Europa, comunque nella corrispondente nostra area politica , e che hanno provocato come reazione, specie in aree giovanili e più radicali, una comprensibile anche se solo in parte condivisibile, intolleranza verso tutti i partiti, senza distinzioni, e verso tutti quelli che li frequentano.
Il tema dei partiti si coniuga ovviamente con quello delle “alleanze”. Qualche improvvisato argomentatore sul tema lo dichiara problema ideologico e/o lo rimanda al dopo ( un'altra votazione da congressino fra bianchi e neri? ).
Per chi non ne avesse esperienza la costituzione di una alleanza elettorale e di “governo”, come anche la sola compartecipazione alle “primarie”, gioco di moda negli ultimi anni, richiede per obbligo che i contraenti stendano un “programma “ o un “patto” in cui sommariamente si dichiarino gli intenti comuni. Ad esempio nelle ultime elezioni regionali piemontesi ( e similmente oggi per le comunali torinesi come di altri comuni in ballo ), nel cosiddetto centro-sinistra si elencava negli intenti la priorità della TAV, la opzione irrinunciabile degli inceneritori, il traforo della collina torinese, la solita idea dello sviluppo urbanistico delle città, insieme ad “ un futuro per l’auto“ non importa se nella versione SUV. Il tutto condito con qualche grattacielo in una città ancora piena di aree industriali e civili dismesse, sembra anche per lasciare il proprio segno nella storia. Tenendo alla larga qualunque idea di conversione ecologica…ovviamente.
Nel capoluogo piemontese la gestione ventennale Castellani-Chiamparino, in attesa di quella di Fassino, ha già portato a casa dei soliti costruttori 200 varianti del PRGC ( nel mentre il simpatico Saitta in Provincia ci sottopone vaghi ammiccamenti cartacei allo stop al consumo di territorio ). Mentre nessuno sfiora l’idea che si potrebbe ad esempio procedere alla coibentazione termica del patrimonio edilizio esistente (obiettivo posto con forza dagli ecologisti in altri paesi europei ), che evidentemente non è considerata una ”grande opera” e che è invece in grado di rilanciare in modo virtuoso un settore di economia e di occupazione per molti anni e ridurre, se si andasse alla scala nazionale, consumi energetici del paese e costi per milioni di famiglie..
Sappiamo come è andata in Piemonte: per gli aderenti minori all’intesa l’immancabile zerovirgola dei verdi e un po’ di più per i vendoliani, fuori il dilagare di Grillo e un aumento dell’astensionismo su tutto.
Contemporaneamente nel piccolo comune vercellese di Tronzano, noto a chi in passato si è cimentato con la questione nucleare, una lista civica, espressione in qualche modo del Movimento Valledora ( un coordinamento di diversi comitati locali con una sostanziale connotazione a difesa del territorio e con anche una moderata connotazione “anticasta” ), si è presentata in alternativa alle solite due liste locali, ha vinto le elezioni con più del 34% e governa ottimamente da sei mesi la città. Sarà un caso ma anche nel lontano Sud Tirolo, a Merano, secondo comune della Provincia di Bolzano, una lista dei Verdi non so se per scelta o perchè costretta, si presentava (con il piccolo gruppo locale di Rifondazione ) da sola, superava l’alleanza PD/IdV , e la sua candidata sindaco perdeva con la destra al ballottaggio prendendo “solo” il 45%.
In aggiunta, come già accennato, sono noti i casi di piccoli comuni “virtuosi” dove la chiarezza su alcuni temi di fondo, aggiungeva altri successi, sebbene più contenuti. E’ ovvio che nelle grandi città la situazione è ben più complessa e richiede progetti e iniziativa dell’area ecologista che, per incapacità di tutti noi, chi più chi meno, sono tutti da costruire.
Alla difficoltà di raggiungere una massa critica, ma anche una chiarezza di intenti, Grillo dà, senza dubbio, il suo particolare contributo negativo .
La sua nota posizione: “da soli contro tutti”, avrà nelle elezioni comunali una prevedibile conclusione: un qualche successo estemporaneo, magari consistente, in alcune delle grandi città, specie al Nord, un risultato zero ( nessun eletto ) in molte decine di comuni che richiedono un quorum più alto; dappertutto rinunciando al faticoso lavoro di presentare una piattaforma di intenti su cui costruire alleanze, specie con il mondo ecologista e civico, che potrebbero dare risultati sorprendenti. Nel caso di elezioni politiche Grillo, come forse anche gli altri di questa nostra galassia dispersa, probabilmente neppure potrà presentarsi su tutto il territorio nazionale; in ogni caso probabilmente non verrà eletto nessuno (ci vuole, ben che vada, il 4% nazionale alla Camera e l’8% per Regione al Senato ); con qualche esercizio di fantasia qualcuno potrebbe tentare di ottenere da qualche parte uno o due parlamentari sui mille totali, contando poi quanti mesi passeranno, come insegna l’esperienza, prima che migrino da qualche altra parte, alla faccia di una illusoria realpolitik che vorrebbe giustificare l’operazione e che aumenterebbe invece la nostra collettiva depressione.
Da più di un anno il Gruppo delle Cinque Terre descrive questo scenario e questa interpretazione della anomalia italiana, cerca di proporre passi necessari, difficili, ma non impossibili, per uscirne. Insieme pone la questione dei contenuti di un progetto di transizione.
Questo del Progetto è infatti, nella pratica, l’unico percorso per avviare l’aggregazione: ci sono dieci temi ( non cento) da discutere e proporre a tutta la galassia ecologista e civica, a chi si è accontentato finora della sua esperienza locale o del suo specifico comitato, a chi sta nei verdi o in altri partiti, che permettano l’aggregazione di quella massa critica iniziale necessaria? Si condivide l’idea che non si possa rifare un partitino con il suo segretario e la solita scaletta di comitati centrali e via a scendere? Non sono necessari atti concreti, utili anche come esempio, che indichino la necessità di superare, tutti, le proprie pregresse appartenenze? Si può immaginare, di fronte alla assenza di proposte vere, sostituite da illusorie finzioni, che si accetti anche il rischio di una fase di “purgatorio” dove si possa promuovere anche presenze elettorali autonome mentre si costruisce un percorso nuovo di larga aggregazione nel territorio invece di ostentare vittimismo perché i media “ci censurano” tutti quanti? Dove e quando ha un senso si può proporre alleanze elettorali vere dove invece di posti, si pongano alcuni pezzi irrinunciabili di una concreta conversione ecologista dell’economia e della società italiana mettendoli al centro di un compromesso, con il coraggio di abbandonare il tavolo in ogni momento se non si ottengono garanzie vere e pubbliche? Non è necessario costruire progressivamente quel tavolo dei cento o come lo si voglia chiamare, che non abbia egemonie interne e sia pronto ad accogliere progressivamente quelli più lontani invece di assicurarsi solo quelli più vicini o solo dei gregari e costruire qualcosa che non appaia solo come una modesta finzione? Si può costruire un nuovo movimento che non abbia anche un esplicito riferimento all’esperienza ecologista nel mondo? Non è necessario che abbia una forte connotazione “anticasta” ( per usare la solita brutta parola )?. Non è ora di aprire un “confronto” aperto e duro con il deleterio populismo di Grillo chiedendogli pubblicamente e ripetutamente un serio confronto sui contenuti? Si può far diventare elementi del quadro generale che si costruisce la ricchezza di tante specifiche esperienze locali invece di conservarle gelosamente come un proprio piccolo gioco in cui perdersi all’infinito? Si vuole scegliere dei metodi concreti che impediscano l’involuzione nel professionismo politico o alimentino la consuetudine del trasformismo e della migrazione del passato?
Qualcuno se la cava rispondendo “ne parliamo dopo”, pochi sembrano interessati a dare davvero risposte a queste domande. Eppure queste sono le risposte, certo non facili, che ci impone la realtà per cominciare a esistere .
* del Gruppo delle Cinque Terre
Per il dibattito vedi anche: Partiti, Movimenti, Reti
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Nei prossimi giorni: Dieci mattoni per la casa comune degli Ecologisti