COME EVITARE UN'ALTRA FAVARA

di Alessandro Coppola

E’ tempo di formare una nuova generazione di organizzatori di comunità che sostengano le società locali nel loro cammino democratico, iniettando capitale sociale di nuova fattura che argini il capitale sociale tossico diffuso da clientele e mafie.

 

 

 

Sono stato preso da uno strano disagio osservando le immagini televisive delle folle urlanti di dolore a Favara. Una sensazione simile a quella che avevo provato qualche mese prima, in occasione del disastro di Giampilieri e di Scaletta Zanclea. Guardando quelle folle urlanti di dolore, mi e’ stato inevitabile chiedermi se, in fondo, tutto quel dolore non fosse altro che una sottile ed inquietante manifestazione di ipocrisia. Punto di vista illuminista di chi non conosce il Mezzogiorno. Certamente. Ma allo stesso tempo, e’ impossibile schivare gli interrogativi che ci arrivano da Favara.

 

Quello che qui interessa capire – e qui si insinua quella molesta percezione di ipocrisia collettiva – é in quali condizioni sia potuto accadere che una comunità locale affondasse in condizioni di degrado tali da minacciare la sopravvivenza di chi la abita, a partire da quella dei più inermi. Sappiamo già molto. Ma forse l'esercizio più utile é quello di osservare la scala iper-locale di questo piccolo comune siciliano, lasciando da parte tante pertinenti osservazioni sul funzionamento complessivo delle istituzioni. Dov'era Favara mentre il suo centro storico affondava e quando le sue case popolari, pronte da anni, venivano travolte dai vandali? Dov'era Favara quando veniva eletta un amministrazione comunale che, nel migliore dei casi, era inefficace e, nel peggiore, complice di poteri che ne inquinano la vita?

 

Realisticamente, e’ solo un’ipotesi, I faversi erano lì. Ma non erano cittadini. O non lo erano abbastanza. Le istituzioni di Favara erano lì, ma non si comportavano da istituzioni democratiche. In una situazione ottimale, il degrado del centro storico avrebbe visto la pronta risposta delle istituzioni e la mobilitazione dei cittadini, determinando un circolo virtuoso fra domanda e offerta di politiche volte a risolvere il problema. E il problema, in qualche misura, sarebbe stato risolto. Allo stesso tempo, ai primi ritardi nella consegna della tanto attese nuove case popolari, si sarebbe inevitabilmente creata ulteriore mobilitazione. Il problema sarebbe arrivato sulle pagine della stampa locale e nelle riunioni delle organizzazioni politiche e sociali, accelerando l’intervento delle istituzioni responsabili che di li a poco – sotto l’occhio vigile dei cittadini e delle loro organizzazioni di rappresentanza – avrebbero finalmente consegnato gli alloggi ai loro legittimi inquilini.

 

Se cosi’ non fosse accaduto – se il centro storico avesse continuato a sbriciolarsi e le case popolari ad essere vandalizzate sotto gli occhi complici di un’amministrazione incompetente – i cittadini di Favara si sarebbero senz’altro organizzati per eleggere un sindaco e un’amministrazione piu’ capaci ed in linea con le loro aspettative. In una situazione ottimale, le sorelline di Favara oggi sarebbero ancora vive per una ragione semplice: perche’ la democrazia locale funzionava e funzionava bene, dimostrandosi capace di produrre quei beni pubblici indispensabili alla societa’ locale, a partire da quello basilare della preservazione dell’esistenza dei suoi membri, a partire da quella dei più inermi.

 

Ma, purtroppo, nelle mille Favara d’Italia siamo ben lontani dalla ‘situazione ottimale’. Ed, in questo, il Mezzogiorno e’ solo una metafora dell’Italia intera: sintomi di differente gravità, ma la sindrome e’ la stessa. E’ del tutto improbabile che vi sia ‘offerta’ di 'buona politica democratica' se di buona politica democratica non c’e’ ‘domanda’, e’ ancor piu’ improbabile che l’offerta di buona politica democratica scaturita da una miracolosa congiuntura riesca a sopravvivere se di essa continua a non esservi abbastanza domanda. E’ anche per questo che, probabilmente, la stagione del rinnovamento amministrativo nel Mezzogiorno iniziata negli anni novanta, pur avendo lasciato una promettente eredita’, sembra essersi in gran parte esaurita.

 

Chi di quella stagione e’ stato il protagonista non ha capito che la domanda di buona politica democratica era altrettanto se non piu’ importante dell’offerta di buona politica democratica. E che, senza quest’ultima, un certo illuminismo dall’alto si sarebbe trovato senza la terra sotto I piedi, una volta scivolata via la congiuntura miracolosa che ne aveva permesso l’ascesa. Non si trattava di creare, come purtroppo molti hanno pensato, leader muscolari e accentratori che tutto decidevano, quanto arene pubbliche nelle quali il piccolo capolavoro di istituzioni funzionanti e cittadini attivi potesse replicarsi ogni giorno, fino a trasformarsi in norma virtuosa capace di autoalimentarsi. E allora viene il sospetto che, oggi, nel Mezzogiorno si debba soprattutto investire nella costruzione della democrazia, anche per via ‘straordinaria’.

 

Ma per arrivare al punto, vorrei portarvi per un attimo nell’America degli anni sessanta. Lindon Johnson e’ stato senz’altro uno dei presidenti piu’ sfortunati della storia americana. Johnson ha fatto un sacco di cose mirabilmente progressiste che hanno incivilito quel paese. Ma in giro per il mondo, quasi tutti lo ricordano soltanto per il disastro vietnamita. Fra le cose mirabilmente progressiste che ha fatto, sta uno dei piu’ spericolati esperimenti democratici che il mondo occidentale ricordi.

 

Nel quadro dell'impegno dell'amministrazione a sostegno dell’integrazione della comunita’ afro-americana, Johnson aveva introdotto un programma chiamato ‘Community Action’ che aveva fra i suoi obbiettivi quello di aumentare la partecipazione degli afro-americani alla vita urbana. Grazie al programma e con i soldi della Casa Binaca, giovani e dinamici organizzatori di comunita’ - gli spesso citati Community Organizers, proprio come il giovane Obama seppure vet'anni dopo - erano inviati nei peggiori ghetti del paese con il compito di sostenere e stimolare i loro abitanti nella formazione di una domanda locale di ‘buona politica democratica’.

 

Attraverso la mobilitazione degli abitanti, si voleva stare col fiato sul collo delle amministrazioni locali e delle istituzioni economiche, costringendole a divenire piu’ efficienti nella fornitura di servizi nei ghetti e piu’ trasparenti e democratiche nel loro funzionamento. L’idea era semplice: «per riformare le istituzioni in senso democratico e sconfiggere le discriminazioni, ci vuole una domanda di riforma che provenga dalla comunita’ afro-americana oggi esclusa. Noi investiremo sulla creazione di questa domanda con i soldi pubblici», si saranno detti i giovani ideologi che lavoravano al fianco del presidente.

 

Con il sostegno dei community organizers, gli abitanti dei ghetti divenivano ora capaci di comprendere il funzionamento di una banca o di un ufficio comunale, di auto-organizzarsi di fronte a un diritto conculcato o a un ritardo ingiustificabile nella fornitura di un servizio pubblico, di organizzare una campagna per l'iscrizione dei giovani nelle liste elettorali o di rivendicare il riutilizzo sociale di immobili abbandonati: In sostanza, gli abitanti dei ghetti si stavano finalmente trasformando in cittadini.

 

La grande maggioranza dei sindaci e delle amministrazioni delle citta’ coinvolte dal programma – quasi tutte dello stesso colore politico dei loro ideatori - non erano per nulla entusiasti degli esiti e della filosofia stessa del programma: ora dovevano fare fronte alla mobilitazione continua da parte della comunita’ afro-americana, che le costringeva a interrompere il loro confortevole ‘business as usual’. E l’idea che questa mobilitazione fosse foraggiata con i soldi del governo federale era per loro inaccettabile.

 

Anzi, era del tutto paradossale – ai loro occhi – che il governo federale sostenesse i residenti nei loro conflitti con le istituzioni locali. Ma in realta’ si trattava di una lettura appena radicale dei compiti fondamentali delle istituzioni democratiche: l’idea era che se le istituzioni non funzionano, e’ loro compito fondamentale quello di riformarsi e che la strada migliore per farlo e’ quella di sostenere i cittadini nei loro sforzi di riformarle. Per via ‘straordinaria’, se necessario, investendo sui cittadini affinché facciano funzionare meglio le loro istituzioni.

 

Ora ritorniamo a Favara. Anche nelle tante Favara d'Italia ed in particolare nel Mezzogiorno, abbiamo soprattutto bisogno di cittadini che facciano funzionare le istituzioni. Di sindaci e amministrazioni locali che si sentino costantemente osservati e valutati da chi li ha eletti, di organizzazioni civiche che vigilino sull’attuazione del loro operato. Dagli acquedotti alle scuole primarie, dalle banche alla nettezza urbana, dall’edilizia pubblica al servizio parchi e giardini, dalle ferrovie locali agli uffici urbanistici: quello di cui abbiamo bisogno e’ una rivoluzione democratica pagata con i soldi pubblici che, creando 'cittadini', trasformi le istituzioni.

 

L’idea che lo sviluppo economico portasse naturalmente con se’ la 'buona politica democratica' e’ tramontata per sempre. Da anni sappiamo che lo sviluppo é un fenomeno molto complesso, i cui ingredienti 'civili' sono spesso proprio quelli fondamentali. Ora e’ venuto il momento di ripartire da quella convinzione, ma di essere più coraggiosi. Inventando una versione tutta italiana del programma 'Community Action' di Johnson e pagandolo con i soldi nazionali ed europei che destiniamo alle aree ‘a ritardo di sviluppo’.

 

Creiamo una nuova generazione di organizzatori di comunita’ che sostengano le societa’ locali nel loro cammino democratico, iniettando capitale sociale di nuova fattura che sia in grado di arginare quello tossico diffuso dalle reti clientelari e degli interessi mafiosi. Allora, il destino delle bambine di Favara non sara’ quello di morire ammazzate in un crollo assassino in una comunita’ colpevole, ma quello di divenire cittadine adulte di una terra che sa curare i suoi mali, sviluppare le sue istituzioni e migliorare l’esistenza di chi ne fa parte