Agricoltura urbana e paesaggio


di Angelo Sofo*

prima parte: Lo spirito del luogo

Chi costruisce o restaura edifici, chi progetta centri urbani, chi pianifica un territorio, avrebbe il dovere, prima di ogni altra cosa, di intessere una relazione intima e profonda con il luogo. Dovrebbe porsi, cioè, in una situazione di ascolto, tentare di percepire l’invisibile che sta dietro al visibile per entrare in contatto con l’essenza di quel piccolo frammento di Terra sul quale è chiamato ad intervenire. Già, perché i luoghi chiamano, evocano, ci inseguono e, quando vogliono, sanno farsi scoprire, anche intimamente. Gli antichi avevano compreso l’importanza e la complessità di questo processo al punto che, ad esempio, nel mondo greco classico, la scelta del luogo dove costruire una nuova colonia era affidato all’ecista (nella Grecia antica, era un condottiero scelto da un gruppo di cittadini per guidarli alla colonizzazione di una terra) personaggio a metà strada tra il condottiero, il sacerdote, il filosofo e l’architetto, il quale sapeva interpretare presagi, segni, narrazioni, semiologie dei luoghi, oltre che gli elementi geografici. Ma la precisa identificazione di quest’idea di “essenza interiore” del luogo fu coniata dai latini con il Genius Loci (con le iniziali maiuscole perché trattasi pur sempre di una divinità, anche se secondaria, cioè non olimpica), che con estrema semplificazione potremmo definire come lo spirito, il nume tutelare di ogni singolo luogo. Per uscire subito dalle secche della pura ricerca filologica, possiamo dire che, se volessimo applicare quel concetto oggi a un luogo particolare, sia esso naturale o urbano, potremmo forse dire che quel luogo è “numinoso”, cioè colmo della presenza di un nume, pervaso da un’aura di sacralità. L’idea di Genius Loci, seppur velata dalle nebbie del mito, può tornare utile a chi voglia accostarsi ad una più attenta e rispettosa “scienza dei luoghi” o ad una architettura più consapevole. Tanto è più vero se si pone mente che l’opera moderna più nota col titolo “Genius Loci” è proprio quella (laica e pragmatica) di un architetto, Christian Norberg-Schulz, col sottotitolo “Paesaggio, Ambiente, Architettura”. Ed infatti, sostiene Norberg-Schulz, “Proteggere e conservare il genius loci significa concretizzarne l’essenza in contesti storici sempre nuovi. Si può anche dire che la storia di un luogo dovrebbe essere la sua autorealizzazione”. Come dire che, a saper bene indagare, ogni luogo reca in sé i segni di ciò che esso vuole essere o divenire. Ed esattamente questa dovrebbe essere la prima preoccupazione di chi si appresta ad intervenire su quel luogo, sia esso architetto, ingegnere, pianificatore o quant’altro.
La perdita della capacità di riconoscere l’identità dei luoghi (l’indifferenza) non è diversa dall’incapacità di riconoscere se stessi come individui sociali. La distruzione dei luoghi non è un incidente, un eccesso di voracità di qualcuno, ma un obiettivo intrinseco del sistema economico dominante: recidere le relazioni tra l’individuo, l’ambiente, gli altri da sé.
 


di Angelo Sofo*

prima parte: Lo spirito del luogo

Chi costruisce o restaura edifici, chi progetta centri urbani, chi pianifica un territorio, avrebbe il dovere, prima di ogni altra cosa, di intessere una relazione intima e profonda con il luogo. Dovrebbe porsi, cioè, in una situazione di ascolto, tentare di percepire l’invisibile che sta dietro al visibile per entrare in contatto con l’essenza di quel piccolo frammento di Terra sul quale è chiamato ad intervenire. Già, perché i luoghi chiamano, evocano, ci inseguono e, quando vogliono, sanno farsi scoprire, anche intimamente. Gli antichi avevano compreso l’importanza e la complessità di questo processo al punto che, ad esempio, nel mondo greco classico, la scelta del luogo dove costruire una nuova colonia era affidato all’ecista (nella Grecia antica, era un condottiero scelto da un gruppo di cittadini per guidarli alla colonizzazione di una terra) personaggio a metà strada tra il condottiero, il sacerdote, il filosofo e l’architetto, il quale sapeva interpretare presagi, segni, narrazioni, semiologie dei luoghi, oltre che gli elementi geografici. Ma la precisa identificazione di quest’idea di “essenza interiore” del luogo fu coniata dai latini con il Genius Loci (con le iniziali maiuscole perché trattasi pur sempre di una divinità, anche se secondaria, cioè non olimpica), che con estrema semplificazione potremmo definire come lo spirito, il nume tutelare di ogni singolo luogo. Per uscire subito dalle secche della pura ricerca filologica, possiamo dire che, se volessimo applicare quel concetto oggi a un luogo particolare, sia esso naturale o urbano, potremmo forse dire che quel luogo è “numinoso”, cioè colmo della presenza di un nume, pervaso da un’aura di sacralità. L’idea di Genius Loci, seppur velata dalle nebbie del mito, può tornare utile a chi voglia accostarsi ad una più attenta e rispettosa “scienza dei luoghi” o ad una architettura più consapevole. Tanto è più vero se si pone mente che l’opera moderna più nota col titolo “Genius Loci” è proprio quella (laica e pragmatica) di un architetto, Christian Norberg-Schulz, col sottotitolo “Paesaggio, Ambiente, Architettura”. Ed infatti, sostiene Norberg-Schulz, “Proteggere e conservare il genius loci significa concretizzarne l’essenza in contesti storici sempre nuovi. Si può anche dire che la storia di un luogo dovrebbe essere la sua autorealizzazione”. Come dire che, a saper bene indagare, ogni luogo reca in sé i segni di ciò che esso vuole essere o divenire. Ed esattamente questa dovrebbe essere la prima preoccupazione di chi si appresta ad intervenire su quel luogo, sia esso architetto, ingegnere, pianificatore o quant’altro.
La perdita della capacità di riconoscere l’identità dei luoghi (l’indifferenza) non è diversa dall’incapacità di riconoscere se stessi come individui sociali. La distruzione dei luoghi non è un incidente, un eccesso di voracità di qualcuno, ma un obiettivo intrinseco del sistema economico dominante: recidere le relazioni tra l’individuo, l’ambiente, gli altri da sé.
 
Costringendo l’individuo nella sola dimensione produttiva/consumistica. Spaesamento, sradicamento sono effetti coerenti di una logica di dominio volta ad annichilire l’individuo. Così il territorio, spogliato dal paesaggio, sterilizzati i «genī loci», diventa strumento neutro del potere economico, liberamente cartografabile, per esercitare il potere, tracciare confini ed erigere muri dentro cui segregare i propri sudditi. Le colate di cemento sommergono ogni spazio libero. Il saccheggio procede. Il paesaggio sparisce: Il capannone è il tipico edificio che più si ripete. Solo piccolissimi varchi tra un edificio e l’altro permettono di gettare uno sguardo oltre la muraglia di capannoni.

La distruzione del paesaggio è la inevitabile conseguenza della preminenza dell’interesse economico su ogni altro valore, del dogma della crescita economica che ha soppiantato ogni altra visione del mondo. Dobbiamo sapere che è la stessa logica che travolge ogni campo del vivere umano: nel lavoro, de-umanizzato, alienato; e nel territorio, ridotto a supporto inerte. Scrive Alberto Magnaghi che la «coscienza di luogo» è la «capacità di riacquisizione dello sguardo sul luogo come valore, ricchezza, relazione potenziale tra individuo, società locale e produzione di ricchezza. Un percorso da individuale a collettivo in cui l’elemento caratterizzante è la ricostruzione di elementi di comunità in forme aperte, relazionali, solidali». Sta quindi in noi cittadini, alle comunità che vivono e lavorano in questi territori ed in questi spazi riappropriarci degli elementi che caratterizzano la nostra vita, attraverso processi di democrazia diretta, e attraverso la difesa dei beni comuni.

L’azione della difesa del paesaggio si inserisce, perfettamente nel quadro più generale (socio-economico e finanche antropologico e culturale) delineato dal progetto della decrescita: decrescere la dipendenza della società dalla logica del mercato capitalistico ed abbandonare definitivamente un modello di sviluppo che ci ha portato alla distruzione delle risorse naturali e sta compromettendo la vita stessa dell’intero pianeta. La difesa del paesaggio può costituire una molla concreta per risvegliare le coscienze e per attivare delle pratiche lungo la via della decrescita. Pensare alla tutela del paesaggio come un principale obiettivo/motore attivatore della decrescita. Ma per fare diventare il paesaggio un punto di forza delle ragioni della decrescita è necessario sviluppare alcuni passaggi logici. Innanzitutto mettersi d’accordo su cos’è il paesaggio. Poi includere “questo” paesaggio, “i beni paesaggistici” del Codice dei beni culturali e non solo tra i beni comuni da rivendicare e da sottrarre alle leggi del mercato. Infine decidere di “prenderlo in cura” (governarlo e gestirlo) in forme e modalità efficienti e condivise, creando anche occasioni di lavoro utile e sostenibile. Serve cambiare mentalità, atteggiamenti, regole, codici di funzionamento sociale. Le esperienze pilote, le pratiche virtuose, i casi di gestione condivisa del bene comune territorio, villaggio, condominio, “città di città”… sono molti (Paolo Cacciari). Credo che per rientrare nei limiti della sostenibilità ambientale, della bellezza dei paesaggi, della equità sociale e del “buon vivere”, si possa partire da qui.

Il ventaglio delle azioni possibili è davvero ampio: si va dall’appello del progettista edile Tommaso Gamaleri che ha lanciato la campagna per l’obiezione di coscienza contro gli incarichi professionali di progetti di edifici su terreni non edificati, alle amministrazioni comunali che modificano i piani regolatori a Zero consumo di suolo , alla campagna Rifiuti Zero. Dalla campagna Salviamo il paesaggio, alle Transition town (autosufficienza energetica). Dalla rete delle Slow city; (Angelo Vassallo, sindaco di Pollica, ne era il promotore in Italia), ai Contratti di fiume. Dal movimento per gli orti urbani collettivi, agli ecomusei, al turismo sostenibile e alla ospitalità diffusa. Dai Parchi agricoli multifunzionali legati alle Reti dell’altra economia e ai Gruppi di acquisto solidali, al movimento per la difesa degli usi civici. Dal co-housing, agli ecovillaggi, ai condomini solidali. Dai piani di bacino idrogeologici, alle bioregioni. Dagli innumerevoli movimenti di cittadinanza attiva, di cui i NoTav della Val di Susa sono un emblema, al laboratorio urbano della Scuola dei territorialisti che ci insegna come è possibile attivare processi di riappropriazione dei luoghi rigenerando relazioni e identità territoriali. Un grande movimento dal basso per sottrarre paesaggio-ambiente-territorio-luoghi alla logica economica del mercato e per ridare bellezza a questo paese ed alla gente che lo abita.

Un territorio di qualità

Le aree agricole alla periferia delle grandi città sono state considerate per molto tempo come ambiti in attesa di essere edificati, come semplici vuoti in attesa di trasformazione. Solo negli ultimi anni si è acquisita la consapevolezza che gli spazi aperti periurbani sono importanti per i cittadini sempre più alla ricerca di “paesaggio”, di spazi liberi e luoghi dove l’agricoltura svolge un rinnovato ruolo di produzione di beni e di cibo vicino ai cittadini, ma anche didattico e multifunzionale in un equilibrato rapporto tra sviluppo e sostenibilità. Gli spazi di margine sono riconosciuti sempre più come importanti ed aventi pari dignità rispetto alle componenti tradizionali che determinano i processi di trasformazione. Se perdiamo gli spazi aperti perdiamo una risorsa collettiva che incide direttamente sulla qualità della vita delle popolazioni: non solo per la mancanza di aree verdi dal punto di vista ricreativo e paesistico; dobbiamo immaginare che la perdita di superfici libere che la Lombardia ha registrato in otto anni equivale, in termini di mancato sequestro del carbonio (e conseguentemente di disponibilità di gas serra in atmosfera), a un incremento del parco auto della regione del 15 per cento. Dobbiamo pensare a tutta la biodiversità che perdiamo quando andiamo a impermeabilizzare un territorio, cosi come non è difficile pensare a tutta l’acqua superficiale che non potendo più penetrare nel terreno si concentra improvvisamente creando danni a cui troppo frequentemente assistiamo. Essere dotati di spazi liberi, verdi, fruibili e vissuti, come possono essere quelli agricoli alla periferia delle città è importante in un progetto complessivo che preveda, nel bilancio dell’uso delle risorse territoriali, anche un maggior equilibrio nell’utilizzo del territorio. Significa inoltre mettere in valore un territorio di qualità, più competitivo e attrattivo anche per le imprese innovative e portatrici di nuove funzioni economiche.

 Nuovi modelli culturali su cui fondare la società del domani

Accanto all’attuale sistema economico, fondamentalmente capitalistico e neoliberista, si stanno sperimentando nuove forme di economia e di consumo. Solo che queste esperienze locali e diffuse contano poco, si tengono oscurate o si espongono come giocattoli. Parlo ad esempio dei mercati contadini, di modalità di scambio reciproco dei beni, dei gruppo d’acquisto solidale, delle filiere corte. Quando le cose si complicano occorre riportarle a una dimensione più semplice. Bisognerebbe avere la capacità di passare dalla semplicità del globale alla complessità del locale. Chi pensa che la filiera corta e il Km0 siano solo forme autarchiche ha una visione assai limitata di questo nuovo modello. In realtà si tratta di proporre un sistema economico di comunità che si basi, prima di tutto, sul valore d’uso del prodotto. Oggi, per dirne una, può accadere che un’acqua minerale tirolese venga venduta in Calabria e una calabrese nel Tirolo. Leggiamo sulle etichette la provenienza dei prodotti che mangiamo comunemente e proviamo a calcolare quanti chilometri si mangiano ogni giorno. Vengono fuori cifre sbalorditive: quella è tutta energia consumata, qualità perduta, identità cancellata. Il valore economico, il Pil e il profitto di pochi hanno preso il sopravvento sul valore d’uso dei beni, innescando processi speculativi che portano anche a grandi crisi nelle quotazioni delle derrate alimentari.

Il mondo agricolo e le aree rurali, a partire da quelle ingiustamente marginalizzate dallo sviluppo globale, possono essere la fucina dove sperimentare nuovi modi, nuove forme, nuovi comportamenti. Non potrebbe essere diversamente visto che l’agricoltura produce quanto ci è più necessario e vitale, ovvero il cibo, ed ha un elevato valore ambientale e culturale. La speranza è che anche in Italia si sia compreso questo passaggio storico, evitando di giocare in difesa. Non si può pensare a politiche che mirino alla sola sopravvivenza del settore. Anche il recupero di metodi e valori tradizionali non deve essere concepito come un ritorno all’agricoltura dei nonni, ma come innovazione supportata dal sapere e dalle conoscenze scientifiche. La coltivazione agricola in ambito urbano può rispondere a molteplici funzioni e diversi obiettivi, ad esempio, la presenza di coltivatori, orticoltori, giardinieri, in contesti urbanizzati potrebbe rendere la città più sensibile alle questioni della sostenibilità ambientale e certamente più bella per la cura costante del territorio che i vari soggetti praticano. Inoltre, la città potrebbe sentirsi più sicura con la presenza di numerose persone che si prendono la responsabilità di accudire spazi che un tempo erano vuoti e alienanti. L’agricoltura urbana, nelle sue diverse forme, è interpretata come opportunità per l’incremento di valori sociali, culturali ed ambientali dei territori interessati. Infatti, in un’ ottica di socialità, può essere occasione di aggregazione intergenerazionale ed interetnica, dal punto di vista ambientale può essere integrata con la rete ecologica, e dalla prospettiva culturale, mezzo per la riscoperta dei tempi biologici.

seconda parte: Gli orti della città diffusa



Il ruolo attivo dell’agricoltura nel progetto di paesaggio

In questo articolo cercheremo di proporre indirizzi per la promozione di diverse forme di agricoltura urbana come mezzo per il miglioramento della qualità paesaggistica e della vita sociale. Indirizzi, quindi, per la cura del territorio attraverso la coltura agricola praticata da soggetti diversi e per scopi differenziati come la produzione, la ricreazione, l’educazione, la socialità, la bellezza. In particolare, ci siamo concentrati nell’analisi e studio dell’orto polifunzionale valutando come il suo sviluppo, attraverso progetti di paesaggio, possa delineare opportunità per il miglioramento della qualità del territorio dei margini urbani, e quindi di tutta la città, rispondendo anche ad esigenze di aggregazione sociale. Considerare il progetto di paesaggio come processo di rivalutazione delle qualità storiche e naturali in territori rurali appartenenti ad un contesto difficilmente interpretabile, come la città contemporanea, non è operazione semplice.

 Che cosa è successo al contado?

All’inizio del XXI secolo il 50 per cento della popolazione mondiale vive in insediamenti urbani, e la percentuale è in aumento: le previsioni attuali stimano che già nel 2030 sarà oltre il 60 per cento, nel mondo, a vivere in città, con uno sviluppo concentrato in particolare nelle fasce periurbane (Parker 2004). Cambiando forma e dimensioni, le città sembrano cambiare natura. Su questa i teorici urbani non cessano di interrogarsi. Non mancano le risposte, ma nella loro stessa pluralità ed evoluzione sta l’indicazione principale: la città è luogo del continuo divenire delle forme di associazione umana. Normalmente, il termine utilizzato per riferirsi a questa specificità è urbanità: Sulla ridefinizione di questa oggi occorre concentrarsi, dal momento che città e campagna non sono più separate da un solco invalicabile, che le divideva (anche quando campi coltivati pur esistevano dentro le mura cittadine) in quanto tipi diversi di società e socialità, quella urbana e quella rurale. Durante gli ultimi trent’anni le città si sono espanse, determinando forme urbane sparpagliate, e in molti casi anche la fusione tra una città e un’altra. Il nuovo contesto periurbano è spesso in una situazione di sprawl, o città diffusa, dove l’identità civica è sempre più incerta. Un tempo il contado, o la fascia agricola intorno alla città, esaltava la differenza tra urbano e rurale, ma oggi è quasi scomparso. Oggi il contado, il perimetro agricolo che tradizionalmente separava la città dalla campagna, è in trasformazione. La confusione delle forme fisiche, è presente anche nel linguaggio che definisce i nuovi composti – periurbano, conurbazione, nebulosi urbana, exurbia (Ingersoll 2004) – ed evidenzia la difficoltà di misurare la commistione del rurale e dell’urbano come società.

La sociologia urbana e rurale, che tradizionalmente si era occupata di questi temi, come di due distinte società appunto, fatica ad adattare le proprie categorie; nel frattempo, discipline affini propongono il nuovo concetto di società paesaggista (Donadieu 2002), che non si basa più sulla distinzione di urbano e rurale in termini sociali, ma anzi sulla re-definizione di urbanità. Resta tuttavia, come contributo proprio delle scienze sociali, quello di interrogarsi sui nuovi rapporti sociali che trovano spazio nei nuovi luoghi, sulle nuove inclusioni ed esclusioni, sulle nuove identità e sulle forme di alienazione (qui intesa come perdita di identità), sulle pratiche quotidiane che fanno e sono fatte dai paesaggi. Per questo il tema dei paesaggi marginali – che continuiamo a definire tali nonostante vi viva la maggior parte delle persone – è cruciale.

Lo sviluppo delle città in metropoli e megalopoli non ha eliminato lo spazio rurale, quanto problematizzato la distinzione tra urbano e rurale. Così se alcuni studiosi preferiscono concentrarsi sulla costante espansione del territorio urbanizzato, altri vanno a guardare negli interstizi per scoprire nuove «campagne urbane». Scienziati sociali ed urbanisti considerano i fattori di attrazione e di spinta dello sviluppo periurbano. I fattori di attrazione, ossia elementi che promuovono questo modello insediativo sono l’aumento dei redditi personali, il desiderio di spazi aperti, la disponibilità personale di automobile. Fattori invece di spinta, via dal modello della città compatta, sono i prezzi elevati degli immobili, la povertà ambientale delle periferie storiche o recenti. Ecco dunque che nelle grandi agglomerazioni, oltre la prima corona di periferia storica, e una seconda di periferia recente, troviamo una terza corona a caratterizzazione ancora prevalentemente rurale ma in modo crescente e continuo ‘lottizzata’ secondo diverse modalità (Camagni 1994). Come si nota, i fattori elencati, analizzati per la loro natura, sono tutti materiali o strutturali (reddito, prezzi, proprietà), tranne uno, il desiderio di spazi aperti, questo è un fattore culturale. Quello che la Convenzione Europea del Paesaggio formula come «domanda sociale di paesaggio». Ed è questo il fattore decisivo, seppure quello più difficile da rendere in termini quantitativi. Ovviamente i fattori culturali non sono variabili totalmente indipendenti rispetto alla struttura sociale e ai più «duri» fattori economici, il capitale del resto non è solo economico, ma anche sociale e appunto, culturale. Il rapporto tra valori, aspettative e desideri diffusi (e culturalmente definiti) e i fattori di natura sociale ed economica diventa fondamentale nel momento in cui si afferma che è proprio in termini di società e di cultura che il rurale e l’urbano non sono più distinti come un tempo. Nel periurbano infatti è proprio in gioco la trasformazione di quello che oggi è un «non luogo» in un luogo, dotato quindi delle tre dimensioni di relazionalità, storia e identità (Augé 1992).

Un aspetto che appare strettamente legato alla dimensione simbolica dei luoghi è quello relativo alla strutturazione della personalità del soggetto in quanto appartenente ad una determinata comunità locale. «È stato empiricamente riscontrato, in proposito, come l’assenza di diversi e significativi simboli territoriali renda nettamente più complesso un processo di costruzione di una forte identità soggettiva, nonché di un autentico sentimento di appartenenza nei membri di una comunità locale, quand’anche questa sia di dimensioni relativamente circoscritte . Viceversa, l’emergere di simboli territoriali precisi può notevolmente agevolare una strutturazione di personalità, nonché un’identificazione forte con il proprio territorio di appartenenza; sono significativi, in questo senso, gli sforzi di questi anni di intervenire, ad esempio, sulle periferie dormitorio delle grandi metropoli, cercando di valorizzarne alcuni luoghi, in funzione di stimolo verso una riappropriazione del territorio da parte dei residenti.

 Cenni storici: orticultura estetica e funzionale

L’orto/giardino come spazio ben delimitato, a segnare una zona d’ordine e vitalità insieme libera e misurata, ha conosciuto in Europa il suo massimo splendore nel Medioevo, anche per effetto dell’influenza dei giardini persiani, dove esso era un elemento centrale nell’immaginario iconografico e letterario, anche se più difficile è stabilirne reale diffusione e caratteri. L’umanesimo ereditò dal Medioevo questa idea del giardino come «seconda natura», più ordinata e spiritualmente sanzionata, un esempio di intervento umano sul suolo che porta al miglioramento di quest’ultimo piuttosto che al suo depauperamento, una via umana, artificiale, al ritorno del Paradiso terrestre naturale (Cardini e Miglio 2002; Mukerji 2002). Tuttavia nella società industriale anche l’orto tende a specializzarsi, separando fiori e verdure, sfera estetica e sfera produttiva, sanzionata positivamente la prima, marginalizzata, nascosta dietro recinti e vista come pertinenza delle classi popolari la seconda (Goody, 1993). In particolare gli orti sociali sono una forma moderna e sono particolarmente sviluppati in alcuni paesi per tradizione, in particolare nell’Est Europa, ma anche in paesi come l’Olanda o la Svezia. In realtà questo tipo di orto dato ufficialmente in concessione da un organismo pubblico o benefico, come forma di welfare, ha origine nel Regno Unito all’inizio del XIX secolo, quando erano destinati a indigenti e disoccupati. Successivamente nascono anche in Germania, e poi si diffondono, comunque collocati, in genere, in luoghi marginali e non urbani. Spesso gli orti hanno avuto grande importanza durante le due guerre mondiali (durante e subito dopo la seconda, in Italia e non solo, si è parlato di veri e propri «orticelli di guerra»). La legge italiana consentiva agli ortolani di coltivare qualsiasi terreno incolta per aumentare la produzione alimentare. In via di declino a partire dagli anni Sessanta, stanno oggi, ormai almeno dalla fine degli anni Ottanta, conoscendo un rinnovato interesse, che li vede però assumere funzioni diverse, con più enfasi sugli aspetti ambientali, ricreativi e sociali. Questo si lega al fatto già osservato che oggi la ruralità sembra perdere il suo stigma: se l’ortolano tradizionale è una figura marginale, il rurale trasferitosi ai margini della città dove coltiva orti per vendere i prodotti ai cittadini, la figura oggi emergente è quella dell’ortolano per hobby, e quindi dell’orticoltura come attività di loisir. Ma un orto produttivo e funzionale utilizzato come loisir, non è già più solo un orto funzionale, sia perché accanto alle verdure non di rado vi sono fiori, sia perché è l’attività stessa ad essere divenute un fine in sé, che si giustifica per il piacere che si trova nel farla: e questa è già una dimensione estetica. Questo dunque è un orto polifunzionale (Donadieu 1998).

Gli orti contemporanei, transizione alla polifunzionalità: ricreazione, educazione, terapia, ambientalismo

Oggi la parola chiave relativa agli orti, e più in generale all’agricoltura periurbana, è polifunzionalità o per meglio dire multifunzionalità. Non solo è interessante connettere questo al divenire della società che da industriale si è fatta postindustriale e sperimenta forme, dopo la differenziazione tipica moderna, di de-differenziazione. È anche interessante notare, come più di rado viene fatto, sulla base della storia degli orti, come la multifunzionalità sia certo un’innovazione rispetto al passato più recente, ma anche un ritorno alla commistione di funzioni di un passato più lontano, fino agli orti medievali dove etica ed estetica convivevano come ricordato nella rappresentazione del perduto paradiso terrestre. Dal degrado dell’orticoltura tradizionale, si stanno sviluppando forme di orticoltura che possiamo definire innovative. Questo non perché adottino soluzioni mai adottate prima, o inventino qualcosa di nuovo, semmai perché combinano in maniera diversa rispetto al recente passato elementi che presi singolarmente possono avere anche una lunga tradizione. Ecco perché non deve stupire che possano essere considerate innovative forme che possono prevedere il ritorno a elementi persino più antichi – come lo è la commistione di funzioni stessa – ora inseriti in un contesto di relazioni sociali e usi totalmente diversi, che ne mutano il significato. Basti pensare al caso degli orti operai, che oggi «ritornano» sotto forma di orti sociali o famigliari, ma con nuovi destinatari (non più operai in fondo alla scala sociale e con un passato rurale), altri scopi (non più sicurezza alimentare, ma soprattutto socialità) e di conseguenza altro significato per la società. L’orto non è più un’attività residuale alla fine del percorso lavorativo, come sorta di ritorno alle origini, perché i nuovi anziani non hanno origini rurali a cui tornare. Tuttavia questo non ha significato la fine degli orti sociali, ma invece la loro rinascita come scelta di stile di vita che avviene prima e non è collegata a marginalità sperimentazioni, facendo cambiare notevolmente il significato stesso dell’orto. Tuttavia dove, come nella maggior parte dei casi, questo cambiamento di prospettiva non è avvenuto, l’orto rimane, proprio da un punto di vista paesaggistico e, anche, di status sociale, visto come problematico. Le sperimentazioni mirate di orti terapeutici, didattici, interculturali e così via richiamano dunque l’attenzione su una funzione generale che in realtà accomuna tutti questi spazi e che nello stesso tempo è difficile e forse non opportuno separare: quella di integrazione sociale. I nuovi «orti sociali», proprio perché ora inseriti in forme innovative di orticoltura, anche laddove siano mirati a fasce deboli, possono liberarsi dalla connotazione di marginalità e assistenzialità che caratterizzava i loro omologhi del passato – connotando in senso negativo i luoghi ad essi dedicati, il che spiega la percezione diffusa tendenzialmente negativa che già emerge nella definizione di «orti di periferia» – acquistando una valenza di integrazione, piuttosto che di segregazione, sociale. È questo però forse proprio l’elemento che non può essere lasciato alla spontaneità, ma necessita di opere di sensibilizzazione e coordinamento. Proprio perché funzione che riunisce tutte le altre ed è difficile da delimitare e da collegare a elementi specifici, quella di integrazione sociale spesso finisce per essere ignorata del tutto. Così le linee guida per la progettazione e gestione di questi spazi corrono un rischio in particolare, che occorre evitare: quello di concentrarsi solo sugli aspetti fisici dei luoghi, tralasciando i loro aspetti sociali.

Come mostrano gli esempi di orticoltura innovativa attraverso l’Europa, una delle attrattive dell’orticoltura sociale contemporanea è che essa viene vissuta come partecipazione attiva, recupero di soggettività e controllo da parte di chi vi si dedica. La partecipazione non è variabile così «nuova» come a volte viene descritta. In questa sua fase attuale, a partire dal Summit di Rio de Janeiro e quindi della promozione dell’Agenda 21, essa si concentra in particolare su temi di sviluppo sostenibile, ma anche la Convenzione Europea del Paesaggio ne fa un perno per la declinazione paesaggistico degli stessi temi. Per la loro particolare natura gli orti sociali offrono un buon punto di vista. L’orto sociale è infatti di per sé gestione partecipata di spazio, tuttavia quest’ultimo tende a ridursi ad area privata, se non si predispongono o favoriscono attività di socializzazione e scambio. L’approccio paesaggistico – il paesaggio è bene pubblico – può fare superare questa chiusura. Tutte le tendenze attuali vanno verso questa enfasi sull’apertura degli orti (giornate di incontro, esposizione raccolti, vendita prodotti, ecc). In sintesi, tra gli elementi da tener presenti in un orticoltura polifunzionale innovativa vi sono: l’elemento di integrazione sociale: presente «spontaneamente» come socializzazione, può essere favorito verso fasce sociali che ne sarebbero escluse; l’elemento di gestione partecipata, relativamente all’area vasta e non solo «al proprio orticello»: in modo da responsabilizzare e sensibilizzare, ortolani e altri utenti, a valori paesaggistici, e da considerare o proporre anche forme di vera e propria progettazione partecipata; l’elemento identitario: in modo da poter osservare come l’attività agricola si rapporti all’identità rispetto ad altre attività lavorative o di tempo libero, e soprattutto in base al suo essere a sua volta lavorativa o di tempo libero, e vissuta in modalità di socialità o meno. La coltivazione agricola in ambito urbano può rispondere a molteplici funzioni e diversi obiettivi, ad esempio, la presenza di coltivatori, orticoltori, giardinieri, in contesti urbanizzati potrebbe rendere la città più sensibile alle questioni della sostenibilità ambientale e certamente più bella per la cura costante del territorio che i vari soggetti praticano. Inoltre, la città potrebbe sentirsi più sicura con la presenza di numerose persone che si prendono la responsabilità di accudire spazi che un tempo erano vuoti e alienanti. L’agricoltura urbana, nelle sue diverse forme, è interpretata come opportunità per l’incremento di valori sociali, culturali ed ambientali dei territori interessati. Infatti, in un’ ottica di socialità, può essere occasione di aggregazione intergenerazionale ed interetnica, dal punto di vista ambientale può essere integrata con la rete ecologica, e dalla prospettiva culturale, mezzo per la riscoperta dei tempi biologici.

 Attività agricola nel contesto della città diffusa: il recupero del contado

L’agricivismo, con tale termine si intende: “l’utilizzo delle attività agricole in zone urbane per migliorare la vita civica e la qualità ambientale/paesaggistica” si propone come un metodo per recuperare il contado, utilizzando gli elementi del paesaggio rurale che tocca la città, per ingentilire l’ urbanizzazione dispersa. Invece dell’isolamento degli orti e dei campi, si prevede l’integrazione delle aree coltivate come parte costitutiva di parchi e giardini, cercando di instaurare corridoi verdi continui e renderle accessibili a tutti con sentieri e piste ciclabili. Il termine è proposto dal Richard Ingersoll. L’agricivismo comprende il coordinamento di molteplici attività agricole in città, una estesa partecipazione integrata, una diffusa coscienza ambientalista. Le potenzialità offerte dagli spazi verdi e dai luoghi d’interesse esistenti sul territorio, organizzate in un progetto complessivo di paesaggio, che preveda di incrementare quelle funzioni che meglio permettono di superare vari elementi di criticità nello specifico contesto, contribuiscono alla coesione sociale, alla sensibilizzazione ai temi ambientali, a migliorare l’offerta di luoghi di ritrovo e ricreativi, a garantire la sicurezza urbana.

La conservazione agricola

Uno dei meccanismi per cercare di rallentare la speculazione edilizia su siti agricoli è di istituire parchi agricoli. Imporre dei vincoli all’espansione edilizia è una importante modalità d’azione, anche se la politica delle continue varianti urbanistiche non le rispetta. Specialmente per le aree agricole periurbane bisogna creare consapevolezza e consenso sul valore culturale e ambientale dei terreni coltivati che superi il loro valore speculativo. Un programma di landcredits, dove il diritto di edificare viene trasferito da siti sensibili a siti meno sensibili potrebbe risolvere le questioni dei diritti individuali dei proprietari. Nei progetti di agricivismo, a differenza della situazione attuale, le fattorie sono ben accessibili, soprattutto per chi si muove a piedi o in bicicletta, e un collegamento tra una fattoria e un’altra costituisce la passeggiata campagnola
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 Il corridoio verde

Uno dei principi basilari per una pianificazione ecologica del paesaggio è la protezione di corridoi verdi. Il transito di varie specie di animali, uccelli e insetti dipende dalla continuità del verde e dalla connessione senza traumi o troppi intrusioni di materiali inerti. I progetti di agricoltura urbana sono utili nel difendere le fasce di verde già esistenti o da restaurare, contribuendo ad una maggior compenetrazione della natura nella città. L’iniziativa vedrebbe ricucito ogni elemento ad un altro con uno stile di paesaggio, formato di piantumazioni tipiche, di una grafica unitaria della segnaletica, e di arredi ripetuti (panche, pavimentazioni, lampade) in contesti diversi.

 I parchi fluviali

In Italia i corsi d’acqua pubblici sono tutelati per legge, con una zona di rispetto di centocinquanta metri da ogni sponda. Solo in rari casi queste aree sono divenute parchi fluviali accessibili al pubblico. Queste ampie fasce di terreno sono luoghi preferenziali per sviluppare un progetto di agricivismo. Il fiume è spesso centrale per una città, e costituisce di per sé una connessione ecologica.

 Orti come componenti del verde pubblico

Durante la guerra, dal 1941 quando il cibo cominciava a scarseggiare, venne permessa la coltivazione a scopi alimentari di aree urbane precedentemente destinate a verde pubblico o privato e di qualsiasi terreno incolto, ad eccezione dei giardini storici. Oggi invece parliamo di orti di pace: la valenza di coltivare un orto come attività che mette a frutto abilità manuali, conoscenze scientifiche, sviluppo del pensiero logico interdipendente è ben presente nel panorama scolastico italiano, numerose sono le scuole che organizzano un piccolo orto biologico nel cortile della scuola o in un pezzetto di terra vicino ad essa. Oggi, in Italia, la categoria di orti civici più diffusa è riservata agli anziani, cioè alle persone al di sopra di sessant’anni. Sono molto richiesti e frequentati, sono luoghi di amicizia e socialità. Raramente sono coordinati con criteri paesaggistici. Nei progetti di agricivismo si intende trattare l’orto come risorsa umana e paesaggistica. Si propone l’estensione all’uso degli orti civici ad altre fasce sociali ed il ridisegno della struttura degli orti in termini paesaggistici e di accessibilità. Per ottenere un paesaggio più armonico le dimensioni in altezza, i materiali dei recinto, la forma dei depositi, e quella dei contenitori dell’acqua sono rigorosamente progettati e controllati, in collaborazione con gli ortolani. Un orto scolastico è disegnato come luogo didattico utile per sensibilizzare gli studenti su questioni alimentari e ambientali, ed anche attenzione ai tempi dell’attesa, riflessione sulle proprie storie locali e famigliari. Inoltre alla mensa si può mangiare il prodotto dell’orto. L’orto ad utilizzo terapeutico, a seconda della tipologia di utenza, può avvicinarsi all’orto civico o, se necessario, essere ubicato in luoghi più isolati. Sono disegnati per chi ha difficoltà motoria, e spesso le piante sono su tavole per rendere più facile l’accesso. Per chi soffre di Alzheimer, il contatto con la terra e i suoi prodotti ha notevoli benefici. Per molti casi di disabilità, un orto con i letti alzati può essere gestito in semi-autonomia. Per i tossicodipendenti e i carcerati, il lavoro nell’orto ha una funzione di liberazione e riscatto e può aiutare a preparare la formazione come operatore agricolo, come dimostra il Garden Project a San Francisco che da quindici anni fornisce ortaggi ai migliori ristoranti della città.

* da comune-info.net 1 e 4 febbraio 2015

* Angelo Sofo vive a Milano e si occupa da anni di progettazione di giardini e orticoltura sociale

 Un archivio molto ricco di articoli sugli orti urbani è questo.