Il Brasile si fa bello spazzando le favelas
di Marco Gulisano ( da comune-info.net ) *
Dopo le impetuose proteste di giugno, il Brasile non fa più notizia ma le ragioni di quella ribellione sono ancora vive e quasi ogni settimana vanno in piazza centomila persone. Intanto Rio de Janeiro si prepara ai grandi eventi mondiali cancellando cento favelas e allontanando la gente che le abita. Le favelas del centro sono state occupate dalla polizia militare, che dovrebbe “pacificarle”. Intervista alla coordinatrice di O cidadão, il giornale comunitario da Maré.
A Maré, la favela in cui è nata e vive tuttora, coordina il lavoro giornalistico di O cidadão, un giornale comunitario, con tanto di versione web http://ocidadaonline.blogspot.it, che stampa 20 mila copie e le distribuisce gratuitamente tra gli abitanti delle 16 favelas da Marè. Gizele Martins, 28 anni, guarda alle cose da un punto di vista decisamente orientato a sinistra, spiega dunque che il suo giornale da 15 anni serve ad ampliare e consolidare il diritto fondamentale alla comunicazione dei cittadini. L’abbiamo incontrata nella tappa romana del suo breve viaggio in Italia. Ci ha spiegato, in primo luogo, che, al di là degli stereotipi, la favela è sì un luogo infestato dalla violenza dove capita facilmente di essere ammazzati da una pallottola vagante sparata dai narcotrafficanti o dalla polizia militare “pacificatrice”, ma è anche molto altro. Nelle favelas da Maré vivono circa 200 mila persone che la mattina si alzano per andare a lavorare, studiano, soffrono, ridono, sperano, faticano, resistono. Tutte cose che non interessano certo le sette famiglie che controllano i media di tutto il Brasile, abbiamo spiegato a Gizele che volevamo rivolgerle qualche domanda perché invece a noi interessano molto.
Le grandissime manifestazioni del giugno scorso sono scomparse dai media internazionali. Il governo ha recuperato consensi oppure sono i media che non riescono a raccontare la profondità e lo spessore di una protesta che si articola in modo più complesso di quello che interessa ai riflettori di una stampa attratta solo dagli scontri e dalla violenza di piazza?
A giugno i grandi media hanno cavalcato l’onda delle grandi mobilitazioni in chiave anti-governo Dilma. In certi casi, sono arrivati anche a fomentare e incentivare la gente a scendere in piazza. Anche gruppi di destra e di estrema destra si sono riversati nelle strade, galvanizzati pure da questo sostegno mediatico. In piazza, movimenti sociali e gruppi di sinistra si trovavano di fronte una doppia repressione violenta: quella della polizia da un lato, e quella degli estremisti di destra dall’altro. Una volta che l’ondata populista si è affievolita – e che i movimenti sociali hanno iniziato a strutturare le rivendicazioni, alzando il livello di conflitto e criticando fortemente il ruolo dei grandi media, la Globo in particolare – le ragioni delle proteste sono sparite dai grandi mezzi di comunicazione ed è partita una campagna mediatica contro i manifestanti e i militanti dei movimenti, etichettati come banditi, vandali, terroristi. Tuttavia, nonostante le proteste non siano sulle prime pagine dei giornali, in Brasile le piazze sono ancora invase da giovani, lavoratori, professori etc. Non ci sono più i numeri che c’erano a giugno. Ciò che è successo a giugno è, e sarà per molto tempo, qualcosa di irripetibile, solo a Rio sono scese in piazza un milione di persone. Ma a giugno molte delle persone che partecipavano alle grandi manifestazioni non avevano una forte coscienza di ciò che stavano rivendicando. Non c’erano piattaforme condivise. Oggi, le centomila persone che scendono in piazza quasi ogni settimana hanno degli obiettivi precisi, cercano di ottenere trasformazioni legate ai nostri diritti, come ad esempio quello dell’educazione pubblica di qualità, dove i professori della scuola pubblica sono in sciopero da due mesi e fanno manifestazioni ogni settimana.
Come affrontate invece questa dimensione meno visibile della protesta con il vostro giornale comunitario?
Il nostro ruolo è proprio quello di fornire alla comunità un’informazione libera, reale, critica. Una grandissima parte della popolazione brasiliana si informa attraverso la televisione e interiorizza così un’idea distorta di ciò che realmente accade. Noi cerchiamo quindi di produrre più materiale informativo possibile, foto, video, articoli, inchieste, interviste, per far conoscere una realtà diversa da quella che viene mostrata in televisione. Spesso andiamo direttamente a casa delle persone, o nelle piazze della nostra comunità, a mostrare dei filmati sulle manifestazioni, sulla repressione della polizia, per far vedere ciò che la Globo non mostra. Non solo il nostro giornale comunitario, ma tutta una serie di gruppi di giornalisti e attivisti legati ai media alternativi stanno svolgendo un lavoro di contro informazione incredibile: attraverso web tv, radio, siti internet, blog e social network si sta creando una vera e propria rete di comunicazione alternativa e comunitaria fondamentale per dar eco a questa fase di fermento sociale e politico particolarmente delicata.
In che modo internet e i nuovi supporti mediatici hanno influenzato le proteste?
I social network hanno avuto un ruolo incredibile, sia durante le proteste di giugno che in quelle che continuano oggi. Diverse mobilitazioni riescono ad avere realmente una partecipazione massiccia grazie ai social network. Vengono creati eventi per appuntamenti e manifestazioni a cui aderiscono sul web migliaia di persone e, grazie alle condivisioni e inviti, poi se ne presentano decine di migliaia. Allo stesso modo, però, le informazioni, le idee, gli appuntamenti e il materiale vario che è stato condiviso sui social network è stato usato anche dalla polizia. Facebook, ad esempio, ha autorizzato la polizia ad utilizzare il materiale per le sue indagini. Nel mese di ottobre, sono state arrestate in maniera indiscriminata circa 250 persone soprattutto grazie a foto e video presenti sui social network. È stato un atto di repressione selvaggia. Bastava una foto che testimoniasse la presenza di qualcuno ad una manifestazione per essere accusati di devastazione, resistenza a pubblico ufficiale fino addirittura ad accuse di terrorismo. Le persone portate via dalla polizia sono state trasferite nel carcere di massima sicurezza di Bangu, nella periferia di Rio. Fortunatamente, quasi tutti oggi sono stati scarcerati. Senza dubbio, la spontaneità con cui sono stati utilizzati i social network, se da un lato ha generato una partecipazione diffusa dall’altro ci si è rivoltata contro; è un’arma a doppio taglio che dobbiamo usare con più attenzione. Ma la repressione la viviamo tutti i giorni. A prescindere dai social network, la polizia sa bene chi partecipa alle manifestazioni e sopratutto chi da anni porta avanti certe rivendicazioni. I poliziotti ci minacciano alla luce del sole facendoci sapere che sanno chi siamo. Vogliono metterci paura, sperano che ci tiriamo indietro, ma non ci tireremo indietro, dobbiamo restare uniti. Sono moltissime le persone minacciate oggi, sopratutto quelle che stanno in prima linea, che parlano prendendo il microfono nelle manifestazioni, quelle che dicono quello che pensano, che raccontano le loro esperienze, ciò che vivono nelle loro realtà e nella militanza dei movimenti sociali. Queste persone vengono arrestate, spesso la polizia arriva direttamente nelle nostre case alle 4 – 5 di mattina, quando tutto è tranquillo e nessuno vede niente. Quello è un orario in cui è difficile chiamare un avvocato. Stanno agendo in questo modo in tutto il paese.
Qual è l’attuale situazione delle favelas di Rio de Janeiro?
Da quando è stato reso noto che il Brasile sarebbe stato sede di mega-eventi (Mondiali 2014 e Olimpiadi 2016) è comparsa una lista di 119 favelas solo della città di Rio de Janeiro che devono essere rimosse. Questo significa che moltissime favelas devono scomparire dalla mappa della città perché la città appaia bella agli stranieri, perché quelli che vengono da altri paesi si godano questa città meravigliosa che invece meravigliosa non è per i suoi abitanti. Chi viene da fuori non sa quello che si soffre qui quotidianamente: povertà, mancanza di sicurezza pubblica, rimozioni. Cinque favelas sono state già rimosse. I loro abitanti si trovano adesso nelle baracche o nelle case di amici in zone lontane dal centro; teoricamente, le politiche pubbliche prevedono il pagamento di un affitto sociale che però, finora, non è stato concesso. Si sono aggravati problemi che avevamo già da prima. In particolare, quello della casa, il diritto all’abitare, da quando Rio de Janeiro è diventata sede di mega-eventi, è peggiorato. Un altro obiettivo che ci poniamo, soprattuto noi a Rio, è quello della smilitarizzazione delle favelas. Da quando la città è diventata sede dei mega-eventi, le favelas del centro sono state occupate dalla cosiddetta Unità di Polizia Pacificatrice (UPP), una polizia militare, adatta alla linea del fronte di una guerra. Peccato che noi non viviamo una guerra. Ci sono dei conflitti armati ma non viviamo una guerra, una guerra è un’altra cosa. Questa è una questione che non riguarda solo le favelas ma tutte le periferie e non solo quelle. La sicurezza pubblica è oggi un tema che interessa non solo la gente che soffre questa violenza. Purtroppo continua imperterrita una criminalizzazione della povertà, l’idea che bisogna colpire chi vive nelle favelas perché lì ci vivono solo dei criminali. Non è assolutamente così. Combattere contro questa idea è diventato un obiettivo di tutta la città perché la polizia non sta solo nelle favelas ma sta nelle strade, criminalizzando, picchiando, ad esempio i professori, ma in generale chiunque si opponga all’oppressione.
In che modo il movimento delle favelas si lega alle lotte degli altri movimenti sociali brasiliani?
Il movimento delle favelas è un movimento che da anni rivendica diritti insieme a tanti altri movimenti: il Movimento dei Senza Terra, quello dei Senza Tetto, il Movimento degli Indigeni, etc. Siamo coscienti di far parte della stessa lotta. Gli indigeni, ad esempio, nel nord del paese stanno subendo un’ennesima repressione da parte del governo. Così come gli abitanti delle favelas vengono rimossi dalle loro case, così gli indigeni vengono cacciati dalle loro terre. La logica è la stessa. I movimenti in questa fase sono abbastanza uniti e stanno cercando insieme di lottare per un’applicazione vera della nostra Costituzione e dei diritti che in essa sono contenuti.
Quali sono gli scenari futuri in relazione alle proteste?
Abbiamo sempre sognato di avere tanta gente in strada. Il Brasile si sta mobilitando, l’America latina si sta mobilitando, in particolare le popolazioni più povere si mobilitano perché non sopportano più la mancanza di diritti, tanta oppressione e repressione. A Rio abbiamo discusso molto su questo, ci siamo chiesti se le manifestazioni continueranno oppure no. Noi speriamo che continuino. Ci sarà un rallentamento ma, fino al 2016, ci saranno molte mobilitazioni perché Rio e il Brasile sono sede di grandi eventi che hanno già generato effetti negativi nelle popolazioni più povere molto più che negli anni precedenti. Quindi quello che prima appariva molto piccolo e isolato, ora riguarda tutti. Un esempio è la strage della favela della Maré che c’è stata in giugno: 13 persone sono state uccise a seguito di una manifestazione. Questa strage che prima era solo “la strage della Maré” oggi é diventata una cosa che riguarda tutti. Le favelas si stanno guardando e si rendono conto che hanno gli stessi problemi e che la repressione obbliga ad andare in strada. Almeno fino al 2016 speriamo la gente continui a scendere in strada, noi ci saremo e continueremo a proporre i nostri obiettivi. Anche i programmi di pacificazione delle favelas hanno un termine, nel 2016/2017 le UPP usciranno dalle favelas. E dopo? Si vedrà. Sicuramente questo lavoro di sensibilizzazione e denuncia ci sta facendo crescere. Non sappiamo ancora dove porteranno queste proteste. La certezza che abbiamo come movimenti è che bisogna rimanere nelle strade, continuare a scendere in piazza rivendicando diritti e giustizia sociale. I dubbi e le questioni aperte sono moltissimi. Ciò che realmente sta succedendo, e dove questi movimenti, porteranno lo capiremo solamente tra 15-20 anni. Quello che conta adesso è essere presenti e attenti, nelle strade e nelle comunità.
* 11 novembre 2013
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Bom dia, Brasil ( luglio 2013 ) Tutto sembrava filare col vento in poppa. Il governo progressista vantava i suoi successi: una potenza continentale e planetaria e 40 milioni di persone fuori dalla povertà. Il Mundial e le Olimpiadi alle porte. E invece la gente comune è scesa in strada indignata, come un fiume in piena. Il gigante del Sudamerica s’è svegliato, ed è un Brasile diverso.